Liliana Segre è da considerare una testimone e maestra di pace.
La sua costante dedizione nel promuovere “la giustizia sociale, la coesistenza pacifica e il disconoscimento di ogni conflitto” è valsa a Liliana Segre una laurea honoris causa in Studi sulla Pace, conferitale dall’Università di Pisa.
La cerimonia si tenne nella sala concerti del centro universitario San Rossore 1938, nome che commemora le leggi razziali firmate lì dal re Vittorio Emanuele III quello stesso anno.
Tra i tanti meriti della Senatrice a vita, c’è sostenere la storia e la memoria della Shoah, facendone uno strumento per coltivare, tra i giovani in primis, quei valori di fratellanza e rispetto in cui la nostra università si identifica pienamente.
Chi è Liliana Segre? Biografia e Testimonianza
È un’ambasciatrice di pace straordinaria, in un tempo in cui l’Italia si trova divisa e incoerente con valori che dovrebbero essere condivisi.
Idealmente, per l’Università di Pisa che le ha conferito la laurea, si tratta della continuazione dell’impegno assunto nell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle politiche antisemite attraverso la “cerimonia di scuse e ricordo”, dedicata ai docenti e agli studenti ebrei che furono poi estromessi.
La motivazione della laurea honoris causa è stata letta dalla professoressa Eleonora Sirsi, Responsabile del Master in Studi sulla Pace. La senatrice a vita ha accettato il riconoscimento con emozione, poi ha ringraziato il suo amico Goti Herskovitz Bauer, che era collegato a distanza alla cerimonia, avvenuta in tempi di pandemia.
Segre, ricordando il ruolo essenziale dell’amica nell’impegno di testimoniare, la definì una vera “maestra di vita”.
“Oggi – ha sottolineato Liliana Segre – avete voluto onorarmi con questa laurea honoris causa, e vi ringrazio di cuore. Tutto quello che posso dire è che, nei limiti delle mie forze, contribuirò a testimoniare e promuovere i valori storici, che ritengo imperativi non solo per rispettare il passato, ma soprattutto per rispettare il futuro. Garantire un futuro aperto alla convivenza, al rispetto, al dialogo, alla solidarietà, all’ospitalità”.
L’ebrea italiana, Liliana S., fuggì in Svizzera nel 1943 ma fu rimandata indietro dalla polizia svizzera e poi deportata ad Auschwitz. Lì sopravvive alla selezione e lavora in una fabbrica di metalli.
Nata nel 1930 a Milano, è cresciuta con il padre perché orfana di madre, con le leggi razziali del 1938 sperimenta una crescente discriminazione.
Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, Liliana e suo padre fuggono in Svizzera sulle montagne nel dicembre 1943 ma vengono rispediti indietro dalla polizia di frontiera svizzera e arrestati in Italia.
Il 30 gennaio 1944 avviene la Deportazione ad Auschwitz-Birkenau, suo padre viene ucciso nelle camere a gas.
La 14enne Liliana svolge i lavori forzati presso gli stabilimenti Weichsel Union Metal fino alla liquidazione del campo e nel gennaio 1945 viene trasferita a Ravensbrück e poi al sottocampo Malchow.
Dopo la liberazione e il ritorno a Milano, si sposa nel 1951 e avrà tre figli e tre nipoti.
Liliana S. ricorda il loro rifiuto di ingresso alla frontiera svizzera:
Nel boschetto incrociammo una sentinella svizzera. Questo, senza una parola ci prese in consegna e ci accompagnò al comando di Polizia del primo paesino che si chiama Arzo, della Svizzera italiana […] Poi al Comando di Polizia, dopo lunga attesa, l’ufficiale che ci ricevette disse che eravamo degli imbroglioni, che non era vero che in Italia gli Ebrei erano perseguitati, che la Svizzera era piccola e che non ci poteva tenere. No! Io, quando ho sentito questo, proprio ho detto fra me: “No, no, questo non è possibile, non è vero che ci capita una cosa di questo genere.” Mi ricordo che mi buttai per terra, gli abbracciai le gambe, lo stringevo, lo supplicavo. E mio papà anche lì, fece un tentativo di lasciare me, lì, disse: ”Ma tenga almeno la mia bambina!” Questo, a parte che forse non l’avrebbe neanche fatto, ma poi non ebbe il tempo di dire sì o no, perché io dissi: ”No! Assolutamente, non resto qui!” Nella maniera più assoluta: “Non resto!” Non mi sono mai pentita di questo, è stato un momento cruciale della mia vita, ma non mi sono mai pentita di questo. Ho abbracciato mio papà e ho ditto: “Non resto io qui, non resto qui, per nessun motivo!” Ci ha rimandati indietro.